Lungo il binario 1 della stazione Tiburtina, c’è una grande targa commemorativa. In alto, una citazione lapidaria: “Meditate che questo è stato”. È un verso tratto da “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Un invito a riflettere sulla tragedia qui commemorata: la deportazione degli ebrei di Roma, avvenuta il 18 ottobre 1943, a bordo di un convoglio partito proprio da questo binario. Accanto a questa, c’é un’altra targa, dedicata a un uomo che cercò in ogni modo di evitare che quel che era stato, si ripetesse ancora e ancora: Michele Bolgia, il ferroviere soprannominato l’Angelo del Tiburtino.
Michele lavora come guardasala. Sotto le bombe del 19 luglio 1943, in mezzo alle sirene e alle esplosioni, ha perso sua moglie. La loro casa in via Perugia, al Pigneto, è stata centrata da un ordigno. Lui e i figli sono riusciti a fuggire in tempo. Lei, purtroppo, no. Li ha lasciati andare avanti, mentre si fermava a soccorrere una vicina che aveva partorito da poco. Quel giorno, nel cuore di Michele si è aperta una voragine. Ma non si è dato per vinto. Ha trovato una sistemazione provvisoria per sé e i suoi ragazzi. Ed è tornato a lavoro, come sempre al suo posto, da oltre trent’anni. Nessuno sa che, col favore delle tenebre, spiomba i carri merci in cui sono imprigionati ebrei e renitenti alla leva. Schiude loro le porte della libertà. In alcuni casi, non si limita ad aprire i portelloni. Entra lui stesso nei vagoni piombati, tirandone fuori dei bambini. Cerca per loro un posto sicuro nei conventi che offrono accoglienza ai perseguitati.
Il suo non è un lavoro solitario. Collabora con il locale corpo di guardia delle Fiamme Gialle, capitanato da Alaydolin Korça, referente del Fronte militare clandestino. Bolgia gli fornisce gli elenchi delle partenze, con orari e binari, in modo che i finanzieri possano intervenire per salvare decine di persone dalla deportazione nei campi di concentramento.
Purtroppo, la mattina del 14 marzo 1944, Michele finisce in una retata. Lo portano a via Tasso e da lì nel carcere di Regina Coeli. I figli, che ne chiedono notizie, vengono scacciati. Un mese dopo, il 5 aprile, riceveranno una lettera in tedesco. Poche righe in cui si annuncia che quel padre coraggioso è “gerboten” (morto). L’hanno assassinato alle Fosse Ardeatine.
(Sara Fabrizi)