Roma è una città popolata da fantasmi. Pare che uno di essi si aggiri alle prime luci dell’alba lungo Ponte Sant’Angelo. Qualcun altro sostiene di averlo scorto nei dintorni di Piazza del Popolo. Cammina avvolto in un lungo mantello rosso scarlatto. Lo stesso mantello che, per tanti anni, è stato esposto in una teca del Museo criminologico di Roma, oggi chiuso. Quell’uomo solitario e silenzioso si chiama Giovanni Battista Bugatti. Ma i romani lo conoscono con un altro nome: Mastro Titta, il boia di Roma.
È il 22 marzo 1798 quando Giovanni mette piede per la prima volta sul patibolo. Ha soltanto 17 anni. Deve eseguire la condanna a morte di Nicola Angelucci, reo di aver assassinato un sacerdote e due frati. Di fronte a una folla di popolo riunita per assistere a quell’edificante spettacolo, gli lega il cappio al collo e poi lo sospende alla forca. Dopo aver compiuto il suo dovere, annota in un taccuino il nome della sua prima vittima. La lista, nel corso di quasi settant’anni di “onorata” carriera, si allungherà molto, fino a contare ben 514 giustiziati.
Nonostante il mestiere crudele che esercita, Mastro Titta non è un mostro. Anzi, chi l’ha conosciuto ne parla come di un uomo rozzo ma gentile. Capita spesso che, prima di calare la spada sul collo di qualche malcapitato, gli offra un sorso di vino. O magari una presa di tabacco. Un modo per allietare quegli ultimi fuggevoli istanti di vita. Abita in vicolo del Campanile 2, nel rione Borgo. Gli è vietato recarsi in centro. “Mastro Titta passa Ponte” soltanto nei giorni in cui sono richiesti i suoi servigi. Le esecuzioni capitali, infatti, si tengono in pubblica piazza, a Campo de’ Fiori, a Piazza del Popolo oppure al Velabro.
È il 18 giugno 1869 quando “Er boja de Roma”, immortalato in alcune poesie del Belli, si spegne, al tramonto di un’epoca.
(Sara Fabrizi)