L’unica certezza riguardo al piatto simbolo della cucina romana è che non è romano. Tutto il resto, a partire dal nome, è stato messo in discussione da fonti più o meno attendibili. Molti, infatti, la chiamano “matriciana”, perché portata nella capitale da una donna di un paesino in provincia di Rieti, che all’epoca faceva parte del Regno delle Due Sicilie, e quindi “della matrice del Regno di Napoli”.
Il paesino in questione è Amatrice, i cui abitanti avrebbero fatto propria la ricetta della gricia, originaria della frazione di Grisciano nel comune di Accumoli, aggiungendovi il pomodoro alla fine del Settecento. Furono quindi i pastori amatriciani, nel corso dei continui spostamenti stagionali della transumanza verso le campagne romane, a importare in città la ricetta che in pochissimo tempo divenne un classico di ogni osteria e non solo.
Cuochi e chef di ogni parte d’Italia e del mondo l’hanno inserita nei loro menù più o meno stellati, apportando variazioni di ingredienti ed esecuzioni che spesso ne hanno messo in dubbio l’autenticità. Per ovviare al problema, proprio il Comune di Amatrice, con una delibera del 2015, ha formalizzato la ricetta e i suoi ingredienti: guanciale di Amatrice, olio di oliva extravergine, vino bianco secco, pomodori San Marzano o pelati, peperoncino, pecorino di Amatrice grattugiato. Basta. Niente cipolla né tanto meno aglio, con buona pace dei revisionisti gourmet.
(Gianluigi Spinaci)