A cura di Gianluigi Spinaci
Come molti piatti tradizionali della nostra cucina, anche l’origine di una delle specialità delle estati romane è da ricercare tra le montagne dell’Abruzzo. Un tempo, tra le cime dell’Appennino centrale, era molto in voga il mestiere del “neviero”, che consisteva nel recarsi, rigorosamente a piedi, in cima alle vette della zona, tagliare un grosso blocco di ghiaccio e riportarlo a valle a dorso d’asino, coperto da un alto strato di paglia isolante, per poi venderlo nelle città vicine. Il ghiaccio veniva usato per la conservazione degli alimenti e per preparare sorbetti e gelati, all’epoca assai costosi. Ad alcuni di questi nevieri un giorno viene in mente di creare un prodotto nuovo e più economico a cui danno il nome di “grattachecca” (da “grattare la checca”, il grosso blocco di ghiaccio antenato dei frigoriferi). Cominciano a venderlo come ambulanti per arrotondare le entrate, riscuotendo immediatamente un enorme successo tra i romani.
Da non confondere con la granita siciliana, fatta con acqua mescolata a sciroppi o succhi e messa a congelare, la grattachecca è preparata grattando il blocco di ghiaccio con un raschietto fatto apposta per raccoglierne la quantità giusta che entri in un bicchiere. Dopodiché, una volta si aggiungeva esclusivamente del succo di frutta fresca, sostituito nei tempi moderni dagli sciroppi.
La grattachecca si mangia e si beve allo stesso tempo, e per questo è servita sia con il cucchiaio, per raccogliere il ghiaccio, sia con la cannuccia, per berla una volta sciolta.