“E allora sarà per voi la vita, l’aria, la luce, il sole, la gioia di aver combattuto e vinto, l’esultanza della libertà raggiunta”. Con queste parole, scolpite su pietra, gli antifascisti di Roma celebrano la memoria dei partigiani del Quarticciolo, con una targa affissa in via Ostuni. Molti uomini di questa piccola borgata partecipano alla Resistenza. Tra loro c’è anche un ragazzo neanche maggiorenne di nome Giuseppe Albano. La cifosi, da cui è affetto fin da bambino a causa di una caduta, darà vita a un soprannome leggendario: è il Gobbo del Quarticciolo.
La sua è una figura ambigua, difficile da inquadrare. Per alcuni è soltanto un criminale. Un giovane cresciuto nella miseria, figlio di immigrati meridionali, abile di mano e di coltello, dedito a piccoli furti. Per altri, invece, Giuseppe è un mito, una sorta di Robin Hood di periferia, che toglie a chi ha troppo per dare a chi non ha nulla. Una fotografia in bianco e nero lo immortala a Porta San Paolo, mentre combatte, in calzoni corti, contro i tedeschi. Quel giorno, nel settembre del 1943, comincia la sua militanza all’interno della Resistenza. Dicono sia a capo di una banda. In verità, il comandante della formazione di cui fa parte è Franco Napoli, un socialista della vecchia guardia. Giuseppe, pur essendo appena adolescente, ha grande carisma. Per questo tanti giovani della borgata lo seguono. È spericolato, audace, capace di compiere azioni temerarie per poi dileguarsi nel nulla. Vengono organizzate retate per catturarlo, dando l’ordine di arrestare tutti i gobbi di Roma. Viene persino messa una taglia sulla sua testa: un milione e mezzo di lire per chiunque riuscirà a consegnarlo. Morirà il 16 gennaio del 1945, in circostanze mai del tutto chiarite.
(Sara Fabrizi)