Alle spalle di piazza Fiume, a ridosso delle Mura Aureliane, sorge quel che resta del Sepolcreto Salario. Un antico e vasto cimitero che risale all’epoca repubblicana. Tra i monumenti funebri, venuti alla luce nell’Ottocento e qui collocati, ce n’è uno in particolare che colpisce l’attenzione. Al di sopra di un piedistallo, si vede una piccola edicola, dentro la quale è collocata la statua di un ragazzino, rivestito di toga. Tiene una mano posata sul petto, mentre l’altra sorregge un rotolo. Si tratta del giovane Quinto Sulpicio Massimo, poeta fanciullo, morto per troppo studio. La sua storia viene raccontata dalla lunga iscrizione, fatta incidere sulla tomba dei genitori.
È l’estate del 94 d.C. quando va in scena la terza edizione dell’Agone Capitolino, una grande competizione che si tiene ogni quattro anni, a imitazione delle Olimpiadi. Ci sono gare di atletica e di poesia, i cui concorrenti provengono da ogni parte dell’impero. Quinto Sulpicio Massimo, ragazzino di soli 12 anni, figlio di ex schiavi, si prepara a lungo e duramente per partecipare alla prova. Dovrà esibirsi di fronte alla folla e allo stesso imperatore, componendo versi in lingua greca su un tema sorteggiato al momento. Un’impresa non da poco.
L’argomento scelto è: “Le parole usate da Giove per rimproverare Apollo di aver affidato il suo carro a Fetonte”. Quinto si concentra e poi declama a gran voce parole che risuonano nell’Oden, il grande teatro che sorgeva accanto allo stadio di Domiziano (odierna piazza Navona). Un applauso si leva al termine dell’esibizione. Persino l’imperatore esprime il suo apprezzamento per le doti del ragazzino. Non sappiamo se è lui a ottenere la vittoria e la corona che la accompagna. La gloria, però, è tutta sua. Purtroppo, questo sfavillante successo rappresenta allo stesso tempo l’inizio e la fine della sua carriera poetica. Affaticato dalle notti insonni e dalle lunghe ore di studio, Quinto si ammala. Muore poco dopo, lasciando i genitori nel dolore.
(Sara Fabrizi)