Nel guardare a est, gli antichi romani erano certamente consapevoli che in quella direzione c’erano molte delle risposte riguardanti le origini del loro territorio e della loro civiltà: il vulcano che con le eruzioni aveva determinato la conformazione dell’ambiente in cui vivevano; le comunità che li avevano preceduti e di cui, in molti casi, avevano ereditato usi e costumi; la grande disponibilità d’acqua, dovuta alle montagne e alle sorgenti, una risorsa primaria che nei secoli ha mantenuto tutta la sua importanza. La Roma che si sviluppava verso est era quindi ricca di attività e di presenze, con ville, monumenti, catacombe e necropoli favorite da un sottosuolo da sfruttare.
Oggi, guardando a est, i romani più consapevoli si chiedono quanto – quella parte di territorio diventato metropoli – sia parte integrata e integrante della città, intesa come comunità, o non rappresenti piuttosto “un’altra Roma”, un’area che – perlomeno da un secolo a questa parte – si è sviluppata in maniera incontrollata caratterizzandosi soprattutto come una sponda per l’immigrazione, che ieri (tra l’800 e il 900) ha accolto le ondate provenienti dalle regioni vicine e dal Sud Italia, e oggi è certamente il punto d’approdo per molti degli stranieri che
arrivano nel nostro Paese. Ragione, questa, che negli ultimi decenni ha generato una narrazione da “periferia” (dai film neorealistici alle inchieste sociologiche e giornalistiche), ma al tempo stesso l’ha spesso collocata, per l’appunto, in una condizione assolutamente “periferica”.
Il Prenestino racchiude e comprende gran parte di questa Roma, la cui gestione e il cui sviluppo rappresentano oggi – e sempre di più nei prossimi anni – una delle sfide maggiormente impegnative per chi dovrà governare la Capitale. Perciò limitarsi a definire il Prenestino come un “quartiere”, rischia non solo di essere riduttivo, ma può farci perdere il senso della complessità e dell’eterogeneità di questa vasta area urbana di Roma che comprende quartieri come Pigneto, Tor Pignattara, Centocelle, Alessandrino, Quarticciolo, e gran parte di quelle “torri” che un tempo erano presidi territoriali e oggi sono insediamenti urbani di decine di migliaia di persone. Il Prenestino è quindi una realtà il cui racconto è anche (ma non solo) il risultato di molti altri racconti: le vicende e i personaggi che ne hanno segnato la storia ci portano nelle epoche più remote, e ci fanno comprendere come – dai popoli che precedettero gli antichi romani fino ai giorni nostri – questa parte di Roma custodisca un patrimonio di straordinario valore. Patrimonio la cui valorizzazione però mal si concilia con la visione periferica maturata da almeno un secolo a questa parte.
Come ben racconta Sara Fabrizi, curatrice di questo volume edito da Typimedia, l’istituzione delle borgate voluta dal fascismo e la movimentazione forzata di migliaia e migliaia di persone attraverso una Roma da plasmare come capitale dell’impero, avviò un processo di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. Se si facesse l’inventario di tutte le ricchezze artistiche, architettoniche e archeologiche del Prenestino, probabilmente avremmo un tour culturale completamente alternativo a quelli tradizionali ma niente affatto inferiore. Questo dovrebbe farci riflettere su che cosa sono davvero le cosiddette periferie della Capitale, territori urbani certamente pieni di problemi mai risolti o affrontati comunque in maniera insufficiente, ma anche ricchi di possibilità che opportunamente sfruttate potrebbero creare valore e senso di comunità. Anche a questo, crediamo, può servire un libro come questo.
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