“Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini” ( “Ciò che non hanno fatto i barbari, l’hanno fatto i Barberini”). Una mattina del 1625, è questo ciò che leggono i romani che passano per l’allora piazza di Parione. Qualcuno, durante la notte, ha appeso un manifesto al collo della statua che si staglia all’angolo della via. È Pasquino, la statua parlante di Roma.
Colui che con versi e motti di spirito dà voce al malcontento popolare. Quel giorno, i suoi strali sono puntati contro papa Urbano VIII, della famiglia Barberini, colpevole di aver fatto fondere i bronzi del Pantheon per farne cannoni. Oltre che per realizzare le colonne del baldacchino di San Pietro. Tutto comincia nel 1501 quando, durante i lavori di sistemazione della piazza, riemerge dall’oblio un’anonima statua. Si decide di collocarla proprio qui, dove è stata ritrovata. Ben presto, però, questo antico reperto diventa l’incubo dei potenti.
Da semplice ornamento di un crocevia, Pasquino si trasforma in protagonista e “commentatore” della vita dell’Urbe. Quello che non si può dire ad alta voce, può essere scritto (e letto) da tutti, mettendo alla berlina aristocratici, cardinali e Papi. Incerta è l’origine del suo nome, avvolto dalla leggenda. C’è chi dice derivi da quello di un sarto o forse di un barbiere della zona, che spesso si sfogava in versi contro qualche “capoccione”, per dirlo alla romana. Altri parlano di un maestro di scuola.
I tempi oggi sono cambiati. Non c’è più il Papa a dominare la città. Pasquino, però, non è andato in pensione. Capita ancora, passando per la sua piazzetta, di vedere fogli e foglietti attaccati al suo piedistallo. Contengono moderne “pasquinate”, satire che raccontano in rima la società odierna.
(Sara Fabrizi)