di Francesco Totti
C’è qualcosa di magico nei rituali di noi romanisti. Ci riconosciamo perfino in quelli che non ci sono appartenuti: è un filo che ci lega e ci rende complici in un istante. Io ho vissuto gran parte della mia vita immerso nelle abitudini e nei gesti che nascono dentro lo spogliatoio, nei ritiri e nelle trasferte, nelle attese che hanno accompagnato i nostri appuntamenti.
Eppure mi sembrano familiari, quasi di casa, tutte quelle storie che iniziano con un bar e un ritrovo a un’ora dalla partita, una macchina o un motorino carichi dei nostri colori, il viale dell’Olimpico mano nella mano (qualunque mano è per sempre), le domeniche che lo decide la Roma, se sono andate dritte o se c’hanno mandato per storto la giornata e la settimana intera.
Ma anche consuetudini all’opposto: come quelle che nascono lontano da Roma, alle prese con il fuso orario, in un pub che trasmette la partita tra rumori stranieri, che poi diventano romanisti grazie a voi, grazie a noi. E ancora: c’è la storia di quella coppia che si è conosciuta in Curva Sud, di quello studente olandese che s’è innamorato di Roma nostra, di quel ragazzino che adesso è padre e dopo la finale della Coppa dei Campioni è tornato a casa a piedi. Una notte a girovagare, a non darsi pace. C’è qualcosa di magico in tutto questo: se sei della Roma, ti conosco. Ti riconosco.
Ma c’è un altro aspetto di questo puzzle pazzesco che ancora oggi mi emoziona: l’idea di essere appartenuto io stesso alla gente, di essere entrato a far parte delle loro vite, dei loro racconti, dei loro momenti. E l’ho fatto, come fa la Roma, in modo trasversale. Tutto ciò che appartiene alla Roma, appartiene anche ai suoi tifosi. A tutti i tifosi. È una specie di giustizia giallorossa, secondo la quale io sono Francesco in un salotto della Capitale e in un marciapiede di periferia. Così s’è piegato pure il cognome: all’inizio mi chiamavano Totti, ora lo fanno come si fa da una stanza all’altra di casa, «France’», che è una scorciatoia bellissima.
Mi rende molto orgoglioso il fatto di aver unito le persone e reso addirittura più semplici alcuni incontri, di aver spezzato il ghiaccio, di essere entrato nelle case e nelle botteghe delle persone, talvolta con una foto o con autografo, altre con un gol e una storia che si intrecciano: «L’anno in cui ho fatto la maturità è quello del pallonetto di Francesco al Parma». Quell’anno era ancora il pallonetto. Poi è diventato il cucchiaio. Per tutti.
Questo libro, con le sue interviste romaniste, conserva e rinnova la magia: centouno storie in cui darci appuntamento e riconoscerci. Sono come certi racconti di famiglia. Molti li conosciamo già, eppure non ci annoiano. Altri arrivano da lontano, da contesti che non ci sono appartenuti, portandosi dietro rituali diversi dai nostri. Tutti ci riportano a casa e ci fanno sentire di nuovo più vicini.
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